Bartolomeo Bartoccio da Cittą di Castello (1535 - 1569), cenni della vita e del martirio.

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[Bibliografia]
Salvatore Caponetto, "La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento", Claudiana, Torino 14 febbraio 1992; pagg. 381-384.

Nato a Città di Castello nel 1535, conobbe a Siena, durante l'assedio del '55, le nuove dottrine per mezzo di un giovane di Gubbio, Fabrizio Tommasi. Durante una grave malattia rifiutò di confessarsi e di comunicarsi. Appena guarito, per non presentarsi al tribunale del vescovo di Città di Castello, fuggì a Siena, poi a Ginevra. Nel '56 entrò a far parte della chiesa italiana e nel '57 fu accolto fra gli «abitanti» della città. Divenuto mercante di seta, sposatosi con una italiana di nome Maddalena, si distinse fra i rifugiati per capacità negli affari e zelo religioso. Ebbe al battesimo dei figli per compari Francesco Greco e Théodore de Bèze.

Nel 1567, in un periodo di gravi difficoltà per i fratelli italiani, dopo la distruzione delle colonie valdesi di Calabria e l'assimilazione al cattolicesimo di quelle pugliesi, il Bartoccio intraprese un viaggio fino in Sicilia sotto la copertura del commercio della seta. Dagli esuli siciliani aveva avuto notizia dei progressi dell'Evangelo a Messina, Palermo, Siracusa. Dalla Sicilia si recò a Napoli e poi a Roma, accompagnato da un servitore e da un cavaliere di Malta. La sosta a Roma è da mettersi in rapporto con la presenza di un gruppo di calvinisti francesi e savoiardi. Nel '61, o nel '62, il nuovo nunzio a Venezia, Ippolito Capilupo, vescovo di Fano, scriveva alla curia romana di aver saputo dall'agente del duca di Firenze che «molti notari e copisti Francesi e Savoini e di quei dintorni si congregano insieme la notte, e vivono a la luterana e a la ugonotta».

Un qualche elemento di vero doveva esservi in quella segnalazione. Il 21 marzo del '62, nella chiesa di S. Maria della Minerva, vi fu l'abiura di 12 "luterani". Nel giugno fu condannato al rogo un monaco greco, di nome Macario, arcivescovo di Macedonia. All'aprirsi del '63 salì sul patibolo Cornelio di Olanda, impenitente, seguito nel settembre dal cipriota Francesco Segretuzzo. Se la maggioranza del popolo applaudiva a questi «spettacoli di fede», vi era chi rimaneva fortemente colpito dal coraggio e dalla fermezza dei condannati.

Nel tentativo di conoscere ed avvicinare i seguaci nascosti delle dottrine protestanti, il Bartoccio si scoprì. Il card. Scipione Rebiba ne segnalò al doge e ai governatori di Genova la partenza da Roma. Il 20 ottobre fu arrestato a Genova con il cavaliere maltese. L'immediata richiesta pontificia di far partire i prigionieri per Roma aprì una lunga trattativa, a motivo dell'intervento delle città di Ginevra e di Berna in favore del detenuto «solo religionis nomine», conosciuto per la sua probità, sincerità e capacità. Se non fosse stato rilasciato, non si sarebbe garantita ai genovesi la libertà di commerciare nei loro paesi, dove nessuno li aveva mai molestati per la loro fede cattolica. Le suppliche del doge e del governo, allarmati per le possibili ritorsioni dei "barbari", non spostarono la decisione del pontefice. Nel marzo del '68 il giovane mercante si trovò davanti agl'inquisitori romani deciso a non abiurare.

Il tentativo del governo genovese di salvargli almeno la vita naufragò dinanzi alle testimonianze raccolte dai giudici. Il card. Cicada, che aveva fatto da intermediario, scrisse il 15 ottobre che gl'inquisitori gli avevano
«fatto intendere averlo trovato eresiarca, ch'è stato quasi per tutt'Italia dogmatizando e procurando d'infettar or questo or quello; oltre di ciò, è talmente ostinato e pertinace nell'error suo, che pensano di farlo abbrusciare, e che la sua festa verrà inanzi quella di Natale».
Il 25 maggio 1569 Bartolomeo Bartoccio fu bruciato vivo, poiché "non gli valse persuasioni di teologi, né di dottori". Una tradizione, accolta dal Crespin nel suo martirologio, ricorda il suo grido mentre era avvolto dalle fiamme: «Vittoria! Vittoria!».
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