Abbiamo già visto nelle pagine precedenti che l'Europa dei principi, dei cardinali, delle Università non era disposta ad accogliere le tesi dei riformatori, per cui il concilio di Costanza fu unanime nella condanna di Wiclif e di Huss. Il riformatore boemo fu bensì ammesso a sostenere le sue tesi (Wiclif era morto nel 1384), ma le due parti rimasero ferme sulle loro posizioni; né poteva
essere altrimenti. Le dottrine di Huss scuotevano dalle fondamenta,
insieme all'edificio gerarchico e sacramentale della Chiesa, le
strutture stesse della società civile.
A noi qui interessano non già le idee del riformatore boemo, ma
« l'umana grandezza del martire », che non volle tradire
la verità, la sua verità, ma la difese con fermezza,
pronto, come diceva, a ricredersi se fosse stato convinto per forza
di ragione e sulla base dei testi sacri, non a piegare il capo
all'autorità. Vero è che il riformatore pretendeva di
annullare dieci, undici secoli di storia « e rifarsi da capo
alla purezza della Chiesa primitiva ». Tutto ciò lo
condusse inesorabilmente al martirio. « Le ragioni della storia
erano più potenti e tremende della volontà di un uomo,
l'urto inevitabile, il martirio fecondo ».
Jan Huss difende le sue tesi dinanzi ai padri conciliari.
Nelle more dei negoziati e dei procedimenti contro i pontefici, un altro
grave problema era stato affrontato, un problema diverso nelle
apparenze, ma sostanzialmente connaturato col primo, cioè
fondato anch'esso sulla crisi del principio d'autorità:
l'eresia di Wiclif e di Huss. La lotta contro lo Hussitismo è
la testimonianza più significativa dello sforzo quasi
sovrumano compiuto dal Concilio per agire rivoluzionariamente e non
lasciarsi travolgere dalla rivoluzione (
Nota 1).
Prima
di partire per Costanza Huss s'era accommiatato dagli amici
raccomandando loro di chiedere a Dio per lui la forza d'animo
necessaria, « affinché, se la morte era inevitabile, la
sopportasse con fermezza, e se gli fosse dato di tornare, potesse
farlo con onore e senza tradire la verità ». Forse era
il presentimento della fine, certo la coscienza della dura battaglia
che avrebbe dovuto sostenere davanti al Concilio. Non è oggi
il caso di rifare il processo ai Padri e all'imperatore Sigismondo,
che lo condannarono a morire sul rogo. Vi furono gli orrori della
prigionia e i clamori dell'assemblea accanita contro di lui, ma
insomma, secondo il suo desiderio, egli ebbe modo di farsi ascoltare
più di una volta pubblicamente e, prima della condanna, tutte
le vie furono insistentemente tentate per indurlo alla ritrattazione.
Se, nonostante le disposizioni del Concilio, nonostante la quasi
ingenua e sempre rinascente illusione di Huss, che gli bastasse
proclamare la sua fede per convincere gli avversari, le due parti
rimasero incrollabilmente nelle rispettive posizioni, ciò non
derivò da un malinteso o da cattiva volontà degli
uomini, ma da un conflitto sostanziale. Ed è umana e storica
grandezza del martire non aver rinnegato quella ch'egli considerava
la verità, che aveva dato una coscienza al suo popolo e ch'era
destinata a distanza d'un secolo a spezzare l'unità del mondo
cattolico.
Pure
sgombrato il campo dalle false accuse dei nemici, la dottrina della
predestinazione, l'indegnità ch'egli decretava, in base a un
criterio morale, a principi e sacerdoti, scuoteva dalle fondamenta,
insieme con la costituzione dello stato, l'edificio gerarchico e
sacramentale della Chiesa. Egli si appellava ai Libri Sacri ed ai
Padri; era venuto per farsi illuminare; quasi meravigliato, si
dichiarava disposto a riconoscere i proprii errori, purché lo
si persuadesse con ragioni o testimonianze migliori delle sue. Ma le
grida soffocavano la sua voce. Sigismondo confessava al conte
palatino che non v'era in tutta la Cristianità maggior eretico
di Huss, e Pietro d'Ailly inveiva contro di lui, che non contento
d'aver abbassato la dignità ecclesiastica, attaccava anche i
principi. In una parola, Huss voleva discutere, convincere o essere
convinto per forza della ragione e dei testi sacri, cioè,
nella sua illusione, annullare la storia e rifarsi da capo, alla
purezza della Chiesa primitiva, nella realtà, condurre a fondo
i principii rivoluzionari di nazione, di stato, di religione,
ch'erano maturati nel Grande Scisma. Invece il Concilio non ammetteva
discussioni, voleva un
sì o un
no, cioè
la pura e semplice ritrattazione delle proposizioni dichiarate
eretiche dalla Chiesa.
Per
ricomporre l'unità cattolica l'Europa era stata costretta a
violarne il primo principio; nulla di strano che insorgesse ora
contro il predicatore di riforma, l'eretico, il seminatore di scisma,
e tanto più s'irrigidisse nell'ortodossia, quanto più
grande sentiva il pericolo del sovvertimento civile e religioso.
Nessuna meraviglia del pari che Sigismondo, trepidante per le sorti
dei suoi stati e dell'impero, alla fine di una seduta, dopo che Huss
era stato allontanato, ammonisse caritatevolmente i «
reverendissimi Padri » di condannarlo al fuoco e di fare di lui
ciò che il diritto prescriveva, ma, comunque, quand'anche si
fosse ritrattato, di non credergli, di non lasciarlo tornare in
Boemia, d'impegnare vescovi e prelati, principi e sovrani, ad
abbattere e sradicare la sua eresia.
Il
nome di Sigismondo ne è rimasto macchiato e il rimedio
suggerito da lui ha promosso, più che non abbia soffocato, lo
spirito d'indipendenza e di riforma. Ma anche qui le ragioni della
storia erano più potenti e tremende della volontà di un
uomo, l'urto inevitabile, il martirio fecondo. Interprete di nuove
esigenze, antesignano di una duplice ed unica rivoluzione, Huss coi
suoi seguaci s'era fatta una propria Chiesa che gli dava ragione;
custode di una tradizione più volte secolare, la Chiesa
cattolica lo condannava; nessun accordo era possibile senza che
l'una o l'altra parte rinnegasse se stessa.
Nell'attesa
della sentenza definitiva, tra la fine di giugno e i primi di luglio
1415, Huss chiese di confessarsi a Stefano Palecz, un compatriota, il
più tenace dei suoi oppositori. Quando il Palecz entrò
nella cella piansero a lungo insieme, poi Huss gli chiese perdono di
averlo spesso oltraggiato, soprattutto di averlo chiamato mentitore,
ma gli rimproverò la sua ingiustizia, senza riuscire tuttavia
a convincerlo. In quel dissidio, e in quel pianto comune, è
raccolta quasi in simbolo la fatalità storica di una tragedia,
che umana carità non poteva scongiurare.
Il
6 luglio 1415 fu data pubblica lettura della sentenza dal vescovo di
Concordia: « Il santo Concilio, constatando che Giovanni Huss è
ostinato e incorreggibile, e rifiuta di rientrare nel seno della
Chiesa e di abiurare i suoi errori, decreta che il colpevole sia
deposto e degradato alla presenza dell'assemblea, e poiché la
Chiesa non può più aver che fare con lui, lo abbandona
al braccio secolare ». Quando, dopo la degradazione, gli posero
sul capo l'alta mitra di carta con l'iscrizione « Hic est
haeresiarcha » (
Nota 2) e gli dissero: « Noi abbandoniamo la
tua anima a Satana », egli rispose, congiungendo le mani ed
innalzando gli occhi al cielo: « Ed io l'abbandono al mio
misericordioso Signore Gesù Cristo ». Poi mosse verso il
luogo del supplizio, levando ad ora ad ora l'invocazione: «
Jesu Christe, Fili Dei vivi, miserere mei; Jesu Christe, Fili Dei
vivi qui passus es pro nobis, miserere mei ». (
Nota 3)
Seguì
la sua sorte il 30 maggio 1416 Gerolamo da Praga, che dopo essersi
ritrattato, aveva sfidato il Concilio riconfermando la sua fede ed
esaltando la bontà, la giustizia, la santità del
maestro, ucciso ingiustamente. In Boemia l'incendio divampava, e le
immagini di Giovanni Huss e di Gerolamo da Praga, come di santi,
venivano adorate nelle chiese.
Note:
(Nota 1) Intendi: le tesi conciliaristiche conclamanti la superiorità del concilio sul papa erano tesi rivoluzionarie. Accettandole i padri conciliari erano tuttavia ben decisi a « non lasciarsi travolgere dalla rivoluzione », a non procedere sulla via
indicata da Wiclif e Huss, che con le loro dottrine infirmavano il
principio stesso di autorità e aprivano una prospettiva di
vita democratica nella Chiesa.
(Nota 2) « Costui è capo di eretici ».
(Nota 3) « Gesù Cristo, Figlio di Dio vivo, abbi pietà di
me; Gesù Cristo, Figlio di Dio vivo, tu che soffristi per noi,
abbi pietà di me ».