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Supersederi

Nota 7. alla lettera ventesima di Roma Papale 1882

Il decreto supersederi è frequentissimo nella pratica dell’ Inquisizione. Esso significa che la procedura è sospesa, ed intanto l’ accusato resta nelle prigioni nello stesso stato di prima. Si fa questo decreto quando non vi sono prove sufficienti per persuadere i giudici dell’ Inquisizione alla condanna dell’ accusato, ovvero quando le prove si riducessero a poca cosa, da non permettere ragionevolmente una grave condanna. Col decreto Supersederi il processo resta aperto, alle volte per molti anni, e spesso fino alla morte dell’ accusato, per cui molti e molti sono stati nelle carceri del S. Uffizio fino alla morte, senza che siasi pronunziata su loro una sentenza.

Molte volte però il decreto supersederi, non è assoluto: alcune volte si dice, supersederi et consulatur Sanctissimus, e questo vuol dire che si deve consultare il papa, il quale ordina ciò che si debba fare in quel caso.

Altre volte il decreto dice supersederi et ad mentem, ed allora vuol dire che il processo resta aperto e sospeso; ma intanto il S. Uffizio prende una misura che non è definitiva, ma che dura fino a che non si riprende il processo, e non si dà la sentenza definitiva.

Altre volte come nel caso del nostro Enrico il decreto porta supersederi donec resipiscat, e ciò vuol dire che il processo è sospeso, per dar tempo all’ accusato di ravvedersi. Questo significa che il S. Uffizio è persuaso della sua reità, ma vuole usargli misericordia. In questo caso però quando l’ accusato facesse la sua abiura, non è per ciò assoluto dalla pena; ma allora si riprende il processo, e si condanna ad un grado di pena minore.

Bisogna però avvertire un’ altra cosa: i giudici del S. Uffizio non sono come i giudici profani che hanno un codice per applicare le pene secondo esso. Nel S. Uffizio non vi è nessun codice, e le pene che si applicano sono puramente arbitrarie, per cui si vede nelle congregazioni che un consultore opina per la pena di morte, un altro per la prigionia perpetua, un altro per la prigionia temporale, ed un altro per la reclusione in un convento. Tutto dipende dall’ arbitrio, e la sentenza definitiva è data dal papa, il quale decide parimente secondo la sua volontà.

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