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Abuso della confessione

Nota 3. alla lettera ventesima di Roma Papale 1882

A proposito dell’ abuso che fanno i preti della confessione, racconterò un fatto che conosco di certa scienza.

Un uomo di condizione civile avea sposata in Roma una bellissima giovane di condizione inferiore alla sua. Questa giovane avea un amico che trattava con gran segretezza. Per apparenza si fingeva devota, ed andava a confessarsi spesso nella chiesa di San Gregorio dei monaci Camaldolesi. Il confessore s’ innamorò della sua penitente, la quale dopo poche smorfie accondiscese, ma andò tanto oltre la passione del padre confessore, che divenne geloso del di lei marito. Esortò dunque la penitente a disfarsi segretamente del marito col veleno. La giovane da principio negò, ma poi consigliandosi con l’ amico, convennero che sarebbe stato bene fare avvelenare il marito dal frate, e dopo si sarebbero sposati lasciando il frate burlato.

Tornando essa dal confessore, disse che avrebbe cooperato all’ avvelenamento del marito, ma che non aveva il coraggio di farlo essa stessa. Era andata quel giorno a confessarsi accompagnata dall’ amico, che fece credere al confessore essere suo cugino ed uomo fidantissimo, a cui se fosse stato bisogno poteva confidarsi il segreto. Il frate allora disse che tornasse, fra otto giorni insieme col cugino. Tornarono, ed il frate consegnò una lettera al finto cugino diretta ad un pseudonimo, nella quale un farmacista di provincia, incaricava l’ amico pseudonimo, ad andare da uno dei principali farmacisti di Roma, mostrare la lettera, e prendere i medicinali in essa notati.

La lettera era suggellata coi timbri della posta proveniente da un paese di provincia. Un farmacista di quel paese domandava al farmacista di Roma, facendogli un’ ordinazione di alcuni medicinali, fra i quali vi era la stricnina. Il farmacista romano non dubitò punto che fosse il farmacista di provincia che scriveva: fece un pacco dei medicinali, e dopo averlo ben legato e suggellato, e scrittovi sopra la direzione del farmacista committente, consegnò il pacco al giovane che lo portò al frate.

Il frate ricevuto il pacco gittò via tutti gli altri medicinali per ritenere la sola stricnina. Allora invitò a far colazione la sua penitente col marito, il quale andò e prese il veleno. Appena finita la colazione, il frate si fece chiamare, ed i coniugi andaron via. Ma per la strada il marito incominciò a sentirsi male, la moglie lo fe’ montare in una vettura e lo condusse in casa. Poche ore dopo quell’ infelice spirò, senza che fosse chiamato nè medico nè parroco.

Vi è in Roma una legge che quando qualcuno muore senza che il parroco sia stato avvisato della sua malattia, il parroco denunzia quella morte alla polizia, la quale ordina la utopsia fiscale.

La stricnina non lascia nel cadavere tracce molto visibili di avvelenamento. La perizia fiscale quando si fa di ufficio, e che non vi è chi paghi, si fa assai superficialmente, per cui da quella perizia non resultò nulla. Ma i pigionali che conoscevano la cattiva condotta della moglie, parlavano di questo fatto, e mostravano la loro persuasione che quell’ infelice fosse stato avvelenato. La polizia incominciò un’ inchiesta; ma quando si venne a scoprire che vi era di mezzo un frate di S. Gregorio, cioè del monastero nel quale era stato frate il papa, e che egli amava ancora passionatamente, sospese ogni inchiesta per non dare un dispiacere a Sua Santità.

Il frate credeva di esser giunto al suo scopo; ma, pochi giorni dopo, la sua penitente sposò il preteso cugino, e non andò più dal frate. Questo fatto è accaduto in Roma nel 1839, e potrei nominare le persone.

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