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Lettera tredicesima
Enrico ad Eugenio
Roma, Aprile 1849.
Grazie, mio caro amico: ho saputo dal nostro Console che tu hai spesso domandate le mie notizie, e mi hai offerto cordialmente tutti i soccorsi. Io non mi aspettava meno dalla tua amicizia; ma nell’inferno ove mi trovava non poteva giungermi alcuna notizia. Ora eccomi di nuovo, dopo due anni di pene, ricondotto a vedere la luce del giorno, ed a godere quella libertà che non pensava mai poter riacquistare. Anche tu temevi forse di aver perduto il tuo amico per sempre; ma ecco lo hai ritrovato, e doppiamente trovato: non solo mi ritrovi come l’amico dell’infanzia; ma come un fratello nel comun nostro Padre e Salvator Gesù Cristo. Io, come Saulo di Tarso, per un male inteso zelo religioso, faceva la guerra a Cristo, credendo onorarlo con dottrine e comandamenti di uomini; ma Egli mi ha atterrato con l’afflizione, ed in essa mi si è manifestato. Quello che non hanno fatto le discussioni del mio buon amico Pasquali, lo ha fatto la grazia del Signore. Due anni di prigionia nell’inquisizione, una lunga e seria meditazione sul Vangelo, la sincera e fervente preghiera della fede, mi hanno condotto alla conoscenza del vero Cristianesimo. Il Signore che io mal conosceva, è venuto Egli stesso a cercarmi nella mia prigione, ed il buon Pastore ha ricondotta la pecorella smarrita.
Molte sono le cose che ho da dirti, e non so da dove incominciare: la mia prigionia, il processo, i patimenti, la conversione, la liberazione; sono tutte cose che vorrei dirti ad un fiato: ma ciò essendomi impossibile, incomincerò dalla mia liberazione, e dal darti una idea di quello che sono le prigioni del S. Uffizio; e ciò ti servirà anche di schiarimento per quello che dovrò dirti intorno al mio processo. Non aspettarti però una descrizione studiata, nè una descrizione poetica: io ti dirò con tutta semplicità, secondo il mio solito, quello che io stesso ho veduto.
Era il 27 Marzo (Nota 1 - Decreto di distruzione del S. Uffizio) vicino al tramontar del sole, quando un tumulto, uno strepito di persone che camminavano a gran passi, e mettevano delle voci delle quali non distingueva i suoni, si fece sentire nel corridoio che metteva alla mia prigione. Sentiva aprire con grande fracasso le porte delle prigioni, e quindi sentiva gridi, minacce, bestemmie rimbombare in quel corridoio. Ignaro di quanto era accaduto in Roma, non sapeva a che attribuire tanto strepito, e credeva essere giunta la mia ultima ora; perciò mi gettai in ginocchio, e mi misi a pregare e raccomandare la mia anima a Dio. Sentii allora aprire con impeto la porta della mia prigione, e vidi entrare in essa per il primo un uomo piccolo di statura, che si getta al mio collo, mi abbraccia, e mi bagna con le sue lacrime che cadevano di sotto ai suoi verdi occhiali. Era il ministro Sterbini autore del decreto di abolizione del S. Uffizio. "Voi siete libero, mi disse, e mi lasciò."
Io era eccessivamente debole, e per la lunga immobilità nell’angusta ed umida prigione, aveva quasi perduta la facoltà di camminare. Due uomini di quelli che avevano seguito lo Sterbini, mi presero nelle loro braccia, e mi portarono come in trionfo a traverso del cortile, in mezzo ad una folla di popolo che gridava: "Accidenti al papa! viva la repubblica!" e fui posto in una camera ove erano gli altri prigionieri liberati (Nota 2 - Prigionieri del S. Uffizio: Caschiur), e quivi quel buon popolo, tanto diverso da’ suoi preti, si dava tutte le premure per ristorarci con brodi, vini e cordiali.
Visitate tutte le prigioni, e liberati tutti i prigionieri, lo Sterbini tornò a noi, e domandò a ciascuno di noi, dove volesse essere condotto. Quando la domanda fu diretta a me, risposi, che essendo straniero non aveva parenti in Roma, e lo pregava mi facesse condurre presso il console della mia nazione. "Andrete dal vostro console, mi disse il ministro, ma non in questo stato: bisogna prima che vi rimettiate un poco in forze." Allora uno di que’ signori presenti, mi pregò di accettare la ospitalità nella sua casa: io accettai con gratitudine, fui posto in carrozza, andai in casa di quel buon Romano, e sono ancora con lui, trattato come se fossi sempre stato il più grande amico della sua famiglia, che io non aveva mai conosciuta. Per le premure del mio ospite e le sollecite cure di un ottimo medico da lui chiamato, in pochi giorni fui ristabilito. Intanto la casa del S. Uffizio era aperta al pubblico: un decreto del 4 Aprile aveva ordinato che in luogo di distruggerla per farvi una piazza con la colonna infame, fosse adattata alla gratuita abitazione di povere famiglie, ed i muratori incominciavano i loro lavori a tale effetto. Il mio ospite mi pregò di accompagnarlo, per servirgli di guida onde visitare e conoscere bene quelle prigioni: io, un poco a malincuore, accondiscesi.
L’edificio della inquisizione romana presenta all’esteriore una architettura semplice e severa. La solitudine nella quale si trova, il gigantesco edificio del Vaticano che gli sta sopra, la porta ferrata che ne apre l’ingresso, il cupo silenzio che regna all’intorno, rendono quell’edifizio di un aspetto spaventevole. Esso è composto di due rettangoli ed un trapezio uniti. La prima parte dell’edifizio che mette sulla via è formata dall’antico palazzo di frate Michele Ghislieri, che, divenuto papa sotto il nome di Pio V, trasformò il suo palazzo in carceri inquisitoriali: fu questo Pio V, poi canonizzato, che eccitò Carlo IX alla famosa strage del S. Bartolomeo (Nota 3 - La strage del S. Bartolommeo). L’inquisizione ricevuto in dono quel palazzo lo adattò all’uso di abitazione del reverendissimo padre Commissario, e de’ suoi due compagni, e di monsignor assessore (Nota 4 - Organizzazione del S. Uffizio). L’altra parte del rettangolo è stata aggiunta pei prigionieri.
Salimmo la vasta scala che conduce ad un magnifico loggiato coperto: a sinistra vedemmo una vasta sala che mette a due diversi magnifici appartamenti, uno per monsignore assessore, l’altro per il padre commissario: gli appartamenti erano quasi intieramente sguarniti; perchè que’ reverendi, prevedendo la burrasca, avevano salvata la mobilia. Seguimmo il loggiato, ed entrammo nella sala delle congregazioni ossia del tribunale. Uno stemma colossale di Pio V era sulla facciata in fondo; un seggiolone per il padre commissario, e dietro ad esso un gran crocifisso; una tavola ellittica coperta di un tappeto verde, con una ventina di seggioloni per i consultori; ecco quanto vi era in quella sala (Nota 5 - Come si fanno le congregazioni).
Di là passammo all’archivio. Una iscrizione a grandi caratteri sopra la porta ne vietava la entrata sotto pena di scomunica; ciononostante tutti entravano, ed entrammo ancor noi. Una grande camera, le cui quattro pareti sono coperte di scaffali ripieni di carte, un certo numero di tavole con l’occorrente per scrivere (Nota 6 - Notai. Spontanee); ecco cosa vi era in quella prima camera, che si chiamava la cancelleria. In essa sono tutti i processi moderni dalla metà del secolo passato fino ad ora. Di là si passa alla biblioteca.
Essa è composta dei seguenti libri. Tutta la giurisprudenza della inquisizione; le bolle de’ papi, gli atti de’ concili, le sentenze delle inquisizioni di Spagna, di Portogallo, e di Goa; tutti i libri che parlano delle leggi e della procedura inquisitoriale; tutte le opere che parlano o in favore o contro la inquisizione, pubblicate in qualunque lingua. Quello però che vi è di più prezioso e di più raro è la collezione completa di tutte le opere pubblicate dai riformatori italiani; opere per la maggior parte incognite ai più eruditi bibliofili, perchè distrutte intieramente. Io restai stupito nel vedere quanto avessero scritto gl’Italiani contro la Chiesa romana. Preziosissima poi oltremodo è la raccolta di tutti i manoscritti evangelici dei quali l’inquisizione con i suoi occhi d’Argo ha saputo impossessarsi, e che tutti conserva in quella biblioteca.
La terza parte dell’archivio contiene i processi antichi, incominciando da Pio V. Là il processo di Galileo, di Carnesecchi, di Aonio Paleario, di Luigi Pascali, e di tutti gli altri che capitarono nelle mani del S. Uffizio.
Dall’archivio passammo in un’altra sala tutta sguarnita: due porte laterali mettevano agli appartamenti dei così detti padri compagni. Volli entrare nell’appartamento del secondo compagno, che ben conosceva, essendovi più volte andato per subire gli esami; ma una guardia che era posta sulla porta c’impedì di entrare, facendoci vedere un trabocchetto aperto. Il sangue mi si gelò nelle vene a quella vista, pensando che io molte volte vi era passato sopra, e che avrebbe potuto essere la mia tomba. Domandai se si poteva scendere a vederlo, e la guardia m’indicò una scala. Scendemmo ed essa ci condusse ad una recente apertura praticata nel muro; passata la quale, eravamo nel trabocchetto, illuminato soltanto dalla cateratta aperta. Era un sotterraneo simile ad un sepolcro: una terra grassa nera e molle ne copriva il fondo: una parte di esso era stata sgombrata dalla terra, ed ossa umane scricciolavano sotto i nostri piedi. Non potemmo reggere a tale spettacolo: il mio ospite sbuffava per lo sdegno; io era compreso di orrore ed uscimmo.
Andammo a vedere l’altra parte dell’edificio ove sono le prigioni. Un cortile umido e pieno di ortiche è nel mezzo; all’intorno di esso delle piccole porte con grossi chiavistelli indicano essere quello il locale delle antiche prigioni: tutte le porte erano aperte, ed entrammo in qualcuna di esse. Sono piccole cellette capaci appena di contenere una persona: una piccola apertura quadrata sopra la porta, custodita da grossa e spessa inferriata, dà un barlume di luce ed un poco dell’aria dell’umidissimo cortile. Il pavimento e le mura di esse sono assai umide. Al disotto di queste cellette vi sono le prigioni sotterranee, che da molto tempo non sono più in uso: esse sono formate dagli avanzi dell’antico circo di Nerone che era colà. Que’ ruderi sembrano essere stati sempre condannati a succiare il sangue e le lacrime dei testimoni di Cristo! In uno di questi sotterranei vi era una scala in pietra che metteva ad un sotterraneo più profondo; esso era destinato a ricevere quegli infelici che erano condannati a morire murati (Nota 7 - I murati). I cadaveri che si trovarono in quel fondo indicavano il modo della barbara esecuzione. Si calavano quegli infelici con mani e piedi legati; si seppellivano fino al petto nella calce asciutta mescolata con terra pozzolana, e si lasciavano colà, chiudendo la cateratta di sopra. Le posizioni di quegli scheletri mostravano la orrenda lotta che avean dovuto sostenere prima di trovare la morte.
Uscimmo da quella dimora infernale, e continuammo la visita delle antiche prigioni. Un piccolo corridoio a sinistra del cortile descritto, mette in un altro cortile più piccolo e peggiore del primo. In esso vi sono sessanta cellette ad uso di prigioni, divise in tre piani, venti per piano. In molte di esse vi era un enorme anello di ferro, in modo da aprirsi chiudersi con lucchetto: questo anello in alcune prigioni era incassato nel muro, in altre sopra una pietra del pavimento. In mezzo ad una di coteste prigioni vi era una pietra rotonda: il governo la aveva fatta alzare: essa cuopriva un pozzo, senz’acqua bene inteso, nel quale vi erano degli scheletri. Non si sa se esso fosse servito per i vivi, o per i morti; ma credo per i morti.
Uno spettacolo tenero, in mezzo a tanto orrore, era il leggere le iscrizioni mezzo cancellate che si leggevano sulle mura interne. In una di esse si leggeva: "Il Signore è il mio Pastore, nulla mi mancherà;" in un’altra: "Il capriccio e la scelleraggine degli uomini non giungerà mai a separarmi dalla tua Chiesa, o Cristo mia sola speranza;" in un’altra: "Beati coloro che soffrono per la giustizia, imperciocchè ad essi appartiene il regno de’ cieli." Queste erano le iscrizioni fatte dai perseguitati; vediamo ora quelle de’ persecutori.
Passammo a visitare le prigioni moderne: esse sono divise in due piani: ognuna di esse ha la forma di una cella monacale, ammenochè la finestra è in alto. Sopra ogni porta vi è un crocifisso, non già nella espressione della commovente preghiera "Padre, perdona loro," ma in espressione feroce e minaccievole da incutere spavento. Al di dentro vi è un passo della Bibbia scritto a grandi caratteri; e questi passi contengono quanto vi è di più terribile nella legge e ne’ profeti: mai un passo di perdono, un passo di consolazione: nel dizionario della inquisizione queste parole non si trovano: la misericordia e la compassione verso gli eretici, è secondo la inquisizione un gran peccato, e stabilisce il sospetto di eresia. Nella mia prigione, per esempio, vi era il versetto 6 del salmo CIX: "Costituisci il maligno sopra lui, e fa’ che Satana gli stia alla destra." In altra prigione vi era il versetto
17 dello stesso salmo: "Poichè egli ha amata la maledizione, vengagli; e poichè non si è compiaciuto della benedizione, allontanisi da lui. " In un'altra il versetto 19 del capo XXVIII del Deuteronomio: "Tu sarai maledetto nel tuo entrare, tu sarai maledetto nel tuo uscire."
Ecco un saggio di quello che gli inquisitori scrivevano della Bibbia.
Ci restava a vedere la camera della tortura: essa è in uno de’ più profondi e nascosti sotterranei: non vi è alcuna finestra: una porta ed un camino stabiliscono la corrente d’aria necessaria alla respirazione; non è mai in essa penetrata altra luce che quella delle fiaccole e del braciere. Si scende ad essa per una piccola scala di pietra. Gli strumenti della tortura non vi erano più, perchè a dire il vero è stata abolita fin dal 1815: ma si vedeva ancora il grande uncino, in mezzo alla volta, ove si attaccava la girella per la tortura della corda; si vedeva, in una pietra incassata al muro, il ferro destinato a sostenere l’asse della ruota (Nota 8 - Torture): un grande camino incontro la porta, indicava il luogo della tortura del fuoco. Ora questa camera è ridotta a cantina per tener fresche le bottiglie de’ santi inquisitori.
Vicino a questa cantina, il governo della repubblica aveva fatto rompere un vecchio muro, a cagione di lavori che si dovevan fare; ma Dio volle che s’incominciasse la demolizione da un muro recentissimo, fatto con calce e fango, e datogli una tinta da farlo sembrare vecchio: abbattuta codesta parete, si trovò un’altra cantina; ma invece di bottiglie, si trovarono in essa due forni fatti a guisa di alveari, ed in questi forni vi erano delle ossa umane calcinate. Non puoi credere l’orrore che cagionò ai Romani una tale scoperta: tutti credevano che il supplizio del fuoco fosse abolito; ma la santa inquisizione non deroga mai alle sue leggi: quando non potè più bruciare gli eretici in Campo di Fiore; quando non potè più bruciarli all’aria aperta, perchè si sarebbe veduto il fumo, li abbruciava ne’ suoi forni (Nota 9 - Forni. - Descrizione del S. Uffizio). Uscimmo da tale inferno, per non tornarvi mai più.
Caro Eugenio! Ecco il luogo ove il tuo povero amico ha gemuto per due lunghissimi anni! Ma tutto ben considerato, sono contento di esservi stato; Dio si è servito della iniquità degli uomini, anzi di quegli uomini di cui io aveva la più grande stima, per convertirmi a Lui: senza questa afflizione, io non so cosa sarebbe divenuto di me.
Intanto io non so cosa sia divenuto de’ miei amici. Domani mi occuperò di loro: andrò dal Console Svizzero, e qualche cosa saprò. Oh potessi trovare ancora il mio caro Pasquali!
Non ho ancora determinato ove dovrò andare; ma fino che sono in Roma ti scriverò spesso, e ti racconterò tutta la storia della mia prigionia e della mia conversione.
Addio, caro amico, amami, e credimi sempre il tuo affezionatissimo